8. FILOSTRATO

Venne poi il turno di Filostrato, che aveva aspettato quel momento con lo stesso piacere con cui si aspetta di venire gettati in un cratere infuocato. Poteva addirittura avvertire il calore consumarlo internamente, tanto che il volto gli si era coperto di una maschera di sudore così spessa che gli parve quasi d’affogare. 
Non si pensi che a Filostrato non piacesse inventare storie, sia ben chiaro. Era anzi l’esatto contrario: trovava, nel tesserle, un piacere profondo e gratificante, una sorta di oppio benefico in grado di anestetizzargli la mente contro la dolorosa noia della realtà, ed era inoltre per lui, eterno abitante delle nuvole, un modo per portare agli altri un po’ di quel mondo segreto in cui lo rimproveravano bonariamente di rifugiarsi un po’ troppo spesso. 
Il problema è che Filostrato era, anche, un attento pianificatore. Di nuovo però è fondamentale che il lettore non si faccia idee sbagliate, credendo che questa sua, all’apparenza invidiabile, caratteristica sia da imputare al gentil dono di una mente sopraffina o ad una più semplice e pratica meticolosità, poiché infatti tale era solamente in virtù di quella incatenante codardía che contraddistingue chi si guarda bene dal fare il benché minimo passo prima di essere assolutamente sicuro di ritrovare poi, sotto la suola, un terreno ben solido. Nel suo caso, questo era costituito dal sollievo che gli veniva dall’altrui approvazione, alla quale negli anni aveva dato un peso tale da trascinarsi in un abisso di eterna indecisione dove metteva in discussione qualsiasi cosa pensasse o facesse. 
Filostrato dunque viveva pressoché costantemente nel terrore dello sbaglio. Teneva i piedi immobili per evitare il passo falso, cercava di fuggire l’errore così come si fugge un morbo e tremava, davanti all’idea del fallimento, come fa un bambino di fronte agli spettri famelici che abitano la sua immaginazione, a tal punto che passava gran parte della sua vita a nascondersi sotto al letto, al sicuro da quelle fauci terrificanti che non vedevano l’ora di straziargli le carni. Qui soppesava ogni opzione, calibrava compulsivamente ogni possibilità e qualsiasi mossa, uscendo solamente quando sapeva per certo che in qualche modo sarebbe riuscito a farla franca, o che di spettro non ne avrebbe trovato alcuno. La maggior parte delle volte, dunque, non usciva affatto. 
Quell’intera situazione allora l’aveva gettato in uno stato di intimo terrore, poiché il trovarsi a dover raccontare una storia di fronte ad un pubblico era qualcosa che, per quella giornata, non aveva previsto, ed imprigionato com’era nella morsa di un tempo sempre più stretto, la pianificazione era il miraggio di una libertà che non aveva: gli spettri gli avevano teso una trappola e lui ci era caduto in pieno. Il momento del giudizio era ormai prossimo e lui sapeva che sotto il suo piede non avrebbe trovato altro che il vuoto. 

Vigliaccamente, approfittò della breve pausa che seguì le riflessioni di Emilia per fuggire in bagno e comprarsi del tempo per poter rinfrescarsi il volto e le idee. Chiudendosi dentro per non essere disturbato, o peggio, per non cedere all’indicibile follia di uscire senza essere pronto, si recò al lavandino e tuffando il volto in avidi getti d’acqua si guardò allo specchio: i minuscoli occhietti verdi nascosti dietro alle lenti degli occhiali, il volto paonazzo di tensione e il collo teso, una bionda selva arruffata e impiastricciata di sudore a fare da cornice. Guardò quella figura grottesca restituirgli lo stesso sguardo di commiserazione e pensò che certo non potesse biasimarla. Si sentì ridicolo. 
Eppure, quella rinfrescata dovette davvero servire poiché, per qualche ragione che lui stesso non fu in grado di spiegarsi, si sentì subito meglio. 
Ed anzi, sereno di una calma sorprendentemente ritrovata, gli riuscì persino di notare ad un tratto quanto quel bagno in cui era corso a rifugiarsi fosse, nel tipo e nelle forme tutte diverse degli arredi, estremamente stravagante, eppure, immerso nei colori del piastrellato variopinto che il lampadario di vetro e lo specchio riflettevano tutt’attorno in una festa luminosa di rossi, verdi e gialli, allo stesso tempo colmo d’una bellezza particolare che mai prima di allora gli era capitato di osservare in un ambiente tanto ordinario. Un piacevole tepore, infine, permeava tutto il locale, placando i tumulti del suo animo e accarezzandogli la mente a tal punto che se ne sentì in qualche modo piacevolmente rapito, e decise di rimanere dentro quelle quattro mura ancora un po’ per godere di quella magica quiete. 

“Tutto bene lì dentro, Filostrato?” gli chiese ad un tratto una voce, da dietro la porta. Perso com’era nella pace dei sensi, la percepì ovattata e distante, tanto che non gli riuscì di riconoscere a chi appartenesse e nemmeno, d’altro canto, gli importava. 
“Sì, tutto a meraviglia” – rispose – “arrivo tra un attimo”. 

Ma nel pronunciare quelle parole si rese conto che anche solo l’idea di riaprire quella porta gli provocava, in realtà, un’inaspettata quanto profonda sensazione di fastidio, come se in qualche modo quel pensiero gli risultasse terribilmente scomodo. Avvertì la sua stessa volontà fare una strenua resistenza all’idea di compiere quanto aveva appena detto. Sentì che tra quelle dolci mura avrebbe voluto passare non solo ancora un attimo, bensì un’ora o due ore, ed anzi, fosse stato per lui, ci avrebbe passato anche tutto il resto della giornata. Si era a tal punto sciolto nel caldo abbraccio di quel luogo tanto meraviglioso, che solamente più tardi, in un breve momento di lucidità arrivato da chissà dove, si rese conto di come in realtà fosse passato ben più di qualche attimo da quando aveva dato quella risposta, anche se non avrebbe saputo dire precisamente quanti. Ad ogni modo dovettero essere davvero tanti, dal momento che – e questa fu per lui una gran sorpresa – era persino riuscito a dimenticarsi dell’intera faccenda della storia, e ancor più sorprendente fu il fatto che la cosa non gli importasse minimamente, poiché tutto ciò su cui la sua mente ora voleva concentrarsi era trovare il modo per rimanere in quel bagno incantevole il più a lungo possibile. Inebriato di questa leggerezza d’animo, decise di inventarsi un malessere improvviso a causa del quale, sfortunatamente, non avrebbe potuto deliziare gli altri con nessun racconto ed anzi, avrebbe dovuto chiudersi lì dentro per ancora molti attimi . 

Tornò dunque alla porta e sbloccò la serratura. Quando fece per uscire, però, questa non si aprì. 
Effettuò nuovamente vari giri di chiave e riprovò, ma la porta non si mosse. 
La spinse, la tirò, mettendoci sempre più forza, e ben presto si rese conto che i suoi sforzi erano vani. Capì di essere bloccato dentro. 
Quell’imprevisto bastò a far sì che la sua mente si destasse dalla nebbia di quel morbido torpore per entrare in uno stato di rinnovata, ma più sinistra, irrequietezza, come se l’irrazionale presentimento di qualcosa di orribile si fosse instillato nel suo animo come un veleno, corrompendo la pace in cui si era così beatamente cullato fino a un attimo prima. 

“Ragazzi’’ chiamò nervoso “ho bisogno di una mano”, ma dall’altra parte, dove la vita scorreva normale e ignara di ciò che gli stava succedendo, Filostrato sentì solo un gran concerto di risate e chiacchiere, che seppur proveniente dalla stanza a fianco, gli sembrò per qualche motivo sorprendentemente lontano, come se quella porta fosse diventata tutto d’un tratto incredibilmente più spessa e massiccia, e dentro quel bagno lui fosse, in qualche modo, isolato dal mondo che le stava fuori. Gli parve di sentire la propria voce cadere nel vuoto, in uno spazio indefinito, dall’altra parte. Nessuno lo aveva sentito. 
Notò inoltre come sulle pareti non ci fosse nemmeno una singola finestra che potesse offrirgli una via di fuga, e sebbene questo già bastasse per dare il suo animo in pasto a una profonda inquietudine, a sconvolgerlo fu il fatto che avrebbe giurato di averne vista una, quando era entrato! Nella ritrovata sobrietà della sua testa, quel bagno tanto meraviglioso gli appariva ora privo di ogni apertura. L’unico modo per uscire era la porta, e questa consapevolezza si tradusse in un brivido freddo che gli salì lungo la schiena quando venne colpito dalla sinistra sensazione che, Filostrato lo percepiva, quelle mura non volessero lasciarlo andare via. 
“Aiuto!” gridò, colpendo freneticamente la porta con le mani e con i piedi “mi sentite?”. Come disturbato da quei colpi così fastidiosamente rumorosi, il vivere allegro e chiassoso che aveva sentito prima si zittì improvvisamente, come troncato. Tutto piombò in un silenzio immobile. Poi, Filostrato sentì avvicinarsi dei passi. 
“Tutto bene lì dentro, Filostrato?” gli chiese qualcuno, ma di nuovo non riuscì a capire di chi si trattasse. 
“Non riesco ad uscire” rispose, grato per aver infine ricevuto il tanto agognato aiuto, “La porta è bloccata” ma il sollievo che gli era arrivato da quella domanda si spense immediatamente di fronte alla gelida e inaspettata risposta del suo misterioso soccorritore. 
“Te ne accorgi solo adesso?” 
Senza saperselo spiegare, Filostrato si sentì congelare il cuore nel petto. 
“È da tempo che sei bloccato qui dentro.” 
Quelle parole lo colmarono di un terrore così violento da rompergli l’anima. Sconvolto, si scoprì in lacrime. 
“Voglio uscire di qui!” gridò con quanto fiato aveva in corpo. 
Ma anche quella richiesta cadde nel vuoto. 
“È tardi, ormai.” rispose la voce “Non si può più uscire.” 
Un cupo mormorio iniziò a venire dalle pareti del bagno, come un lamento, prima piano, poi sempre più forte, fino a quando, con un ruggito assordante, tutte e quattro iniziarono a scuotersi violentemente e tutto, nella stanza, venne investito da una forza invisibile ed iraconda. Parte dell’arredamento si rovesciò sul pavimento, lo specchio andò in frantumi, mentre una ragnatela di crepe sfigurò il bellissimo volto delle piastrelle, che si spaccarono in una moltitudine di schegge. Il meraviglioso lampadario di vetro rovinò al suolo, esplodendo in mille pezzi e gettando la stanza in un buio denso e gelido. Cieco e solo, sconvolto dinnanzi a ciò che non riusciva più a riconoscere come realtà o delirio, urlò terrorizzato, ma a spaventarlo ancora di più fu il fatto che quella voce tanto fredda e tanto odiosa riusciva in qualche modo a sovrastare tutto quell’assordante frastuono, anzi a mescolare ad esso un riso malvagio e meschino, come di scherno, e parve a Filostrato che quel bagno e quella voce fossero, per malefico incanto, una cosa sola! 
“Dovevi pensarci prima, Filostrato” continuò la serpe, sputando il suo veleno “rimani chiuso per sempre tra i muri che tanto ami!” 
Come in risposta a quella sentenza finale le pareti, già ferite, si squarciarono definitivamente, sgretolandosi a terra in una nube di intonaco e polvere. Oltre il cadavere del bagno si estendeva ora, sotto un cielo di pallida luna, un campo sconfinato. Sentì le caviglie affondare nelle fauci di un terreno putrido, dal quale si alzavano innumerevoli denti di pietra cariata e ingiallita. L’aria tutt’intorno a lui esplose di un’altra malefica e sadica risata quando, con sommo terrore, Filostrato realizzò che la tanto odiata porta era sparita e al suo posto era comparsa una lapide, sulla quale lesse in orrore: “QUI GIACE FILOSTRATO, ETERNO PIANIFICATORE” 
Nel tumulto dello spavento sussultò, indietreggiando istintivamente da quell’orribile visione, ma dopo appena un passo si sentì mancare la terra da sotto le suole. Volò giù nel vuoto, in profondità per diversi metri, prima di rovinare in una cassa di legno. 
Ad un tratto la crudele ilarità del cielo si fermò di colpo e il silenzio, risorto, inghiottì la notte. Poi, una vecchia porta si aprì piano. Dalla cima della fossa fece capolino uno spettro, e Filostrato trasalì: un paio di minuscoli occhietti verdi nascosti dietro alle lenti degli occhiali, il volto freddo di malvagità, una bionda selva arruffata e impiastricciata di sudore a fare da cornice. Lo guardava con compiaciuta malignità. 
“Tutto bene lì dentro, Filostrato?” 
Con uno schianto secco, il coperchio si chiuse sopra di lui. Provò a strattonarlo con forza, ma era bloccato. Gridò, ma non lo sentì nessuno. 

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