1. Cornice

[…]l’anno 2020 del terzo millennio fu indimenticabile. Grandi catastrofi sconvolsero la Terra, e l’umanità tutta tremò, ed ebbe paura. Grazie agli studi che abbiamo fatto leggiamo cronache che fanno rabbrividire: ma poco è rimasto, e quel che sappiamo si è perso nei meandri del tempo. Tuttavia, ho avuto la fortuna di imbattermi in un curioso manufatto, che all’epoca veniva chiamato hard disk. All’inizio si faceva fatica a leggerlo, perché consunto, e corrotto dal tempo e l’incuria. Ma con l’aiuto dei miei insigni colleghi dell’Università di Metropolis sono riuscito a decifrarlo e a estrarne il contenuto. L’autore, o meglio, gli autori, sono anonimi. La datazione oscilla tra il 2020/2021. 

Vi riporto dunque cosa vi è scritto, nella speranza che possiate apprezzare. Il professor John Hopkins, Metropolis, l’anno 2800. […], tratto da “Studi storici sul secolo ventunesimo. Raccolta di saggi”. 

“TITOLO: DECACORONE. CORNICE 

Umana cosa è aver compassione per gli afflitti. Così scriveva Boccaccio, nell’inizio del suo poderoso lavoro che tutti noi studiavamo annoiati nelle aule universitarie. Mai avremmo pensato che si sarebbe rivelato così attuale e quasi profetico. Ma per non perdermi in noiosi preamboli, o lettore, passo subito alla narrazione dei fatti. 

Era il febbraio dell’anno 2020, e quella sera ognuno di noi era in fermento. Una gran festa si sarebbe tenuta nell’atrio universitario, una festa sontuosa e ricca di divertimenti, come mai si era fatto prima. Una festa di carnevale estremamente originale. E noi del Gruppo Albatros, lo avevamo organizzato. Era il gruppo di scrittura creativa dell’Università di Udine. 

L’idea era semplice, ognuno di noi si sarebbe dovuto vestire ispirandosi a un libro, che lo aveva particolarmente colpito. I preparativi erano andati avanti per settimane, con grande lavoro e impegno da parte di tutti i membri. Era incredibile il modo in cui eravamo riusciti a conciliare cultura e divertimento. Giochi di tutti i tipi, cibo a volontà. Sarebbe arrivata proprio tanta gente.  

Erano dunque le otto di sera circa, ed eravamo tutti riuniti, in dieci, e ormai non si aspettava altro che dar inizio al nostro allegro ritrovo. Ognuno era vestito in modo particolare: Elfi, cavalieri, guerriglieri, dame ottocentesche, impiegati. Qualcuno si era travestito anche da carota. Un vero spasso! La nostra mente era protesa a un’unica cosa: l’arrivo degli invitati. Sarebbero arrivati a frotte, oh sì, ci potete contare.  

Ma i minuti passavano, inesorabili e nessuno giungeva. Nessuno. All’inizio scoppiamo a ridere, pensando all’immancabile ritardo tipico dell’italiano medio. 

A un certo punto però, non ridemmo più. Nessuno era ancora arrivato. Cosa diamine era successo? Ci guardammo, preoccupati, gli occhi fissi in quelli degli altri. Una strana sensazione iniziò a prendere i nostri cuori, e un funereo presagio a farsi spazio nel nostro animo. Ricordo che deglutii. Non sentivo più saliva nella mia bocca, era secca come un deserto riarso dal sole. Quand’ecco che uno, compulsando il cellulare dà la notizia. “Ehi ragazzi”, fa, con un strano accento frammisto di terrore e eccitazione al tempo stesso. 

“Ragazzi, c’è un’emergenza”. Ci fiondammo sul display del suo telefono. Una scritta giganteggiava sullo schermo, lapidaria e sentenziosa: ALLARME CORONAVIRUS. IL GOVERNO DECRETA IL COPRIFUOCO. 

Avevamo sentito vagamente parlare di questa malattia, arrivata dalla Cina. Sì certo, c’era stato qualche caso anche in Italia, ma insomma, cose di poco conto, nessuno di noi era preoccupato.  

D’un tratto si sovvertì il mondo. Sentimmo urlare in strada. Ci precipitammo all’uscita. La gente gridava in preda al panico, e si percuoteva il petto, come impazzita. Il negozio accanto era letteralmente preso d’assalto. Un groviglio di genti, di mani, di gemiti, parole di dolore e accenti d’ira. La follia collettiva iniziò a dilagare, più forte e spaventosa di un mare in tempesta.  

Chi corre di qua, chi di là, ognuno cerca di scappare, ma non sa dove. Il morbo è ovunque si dice. La paura e il terrore incombono su di noi come una nube minacciosa. Mentre vedevo la gente accalcarsi sulla porta del supermercato, che si spingeva e vociava, mi venne subito in mente la famosa scena de “I Promessi Sposi”, in cui Renzo vede sgomento una folla inferocita che assalta i forni del pane.  

Ero inebetito, quando ecco che i compagni della allegra(fino ad allora) brigata mi riscuotono dal mio torpore riflessivo.  

“Dobbiamo scappare, dobbiamo chiuderci in casa” si dice. “Ma dove? DOVE!?”, ci si chiede, sempre più spaventati. Dalla città si odono suoni di sirene, di ambulanze. La pioggia inizia a scrosciare. La natura era contro di noi. 

Di impulso mi venne l’idea, o meglio, capii cosa dovevamo fare. Casa mia era poco distante. Era piccola certo, ma poteva andare bene. Prima però bisognava recuperare i generi alimentari necessari. Quando la calca stava andando ormai scemando ci introducemmo nel negozio. Era a soqquadro. Ma qualcosa era rimasto. Prendemmo acqua, pane, pasta, cibo in scatola, latte a lunga conservazione. Però era poca roba, e della qualità più scadente, e quindi in modo assai più saggio, ci rivolgemmo al banchetto che avevamo preparato per la sfortunata festa.  

Le nostre scorte quindi erano davvero singolari. Birre, muffin, marshamallows, pop corn, tramezzini, salame piccante etc. Non la tipica dieta mediterranea insomma.  

Finito questo, ci fiondammo a casa mia. 

Molti di noi erano in lacrime. Avevamo paura. Me compreso. Nessuno sapeva cosa fare. La morte incombeva su di noi, come una nube oscura e insondabile. Come per magia, lo sguardo mi cadde sulla mensola del soggiorno.  

Guardai nervosamente quei libri, lasciati lì da chissà quanto, un po’ polverosi, un po’ ammuffiti. Ve n’era uno, con la copertina rosso fuoco che catturò la mia attenzione come un magnete. Era il Decameron. Fu come una folgorazione. 

Feci un balzo e lo presi. Mi sembrò di aver trovato il Santo Graal. “Ragazzi!” dissi. “Ho trovato la soluzione. A dire il vero non se sia la soluzione, ma di sicuro è l’unica cosa che possiamo fare”. 

“E cioè, sentiamo?” dissero gli scettici, all’unisono. “La cultura ci salverà. Fuori è tutto buio e brutto, e la gente fa bene ad avercela, la paura. E noi siamo qui, nascosti come ratti, tremanti e inebetiti. Ma abbiamo un talento.” 

“Quale?”, è la domanda dei più. “Siamo un gruppo di gente cui piace scrivere e creare, dico bene?”. 

“E quindi? Non mi dirai che con la penna si possa uccidere un virus”, dice una voce maligna. 

“No”, dico io, “non possiamo sconfiggerlo con la penna. Ma possiamo sconfiggere la paura. Avete visto la gente là fuori? Urlano, si spintonano. Sono come impazziti. Noi possiamo resistere a questo.” 

Vedo che l’uditorio si fa più attento e interessato. “ Qui in mano ho il Decameron. Vi ricordate quante volte ne abbiamo sentito parlare sui banchi di scuola? Ad alcuni piaceva, a molti semplicemente annoiava, ai più faceva schifo solo a sentirlo nominare. Eppure io credo che lì si trovi la chiave della nostra situazione. Cosa fanno i protagonisti quando tutto sembra andare in rovina e la speranza pare ottenebrata? Si rifugiano, si rifugiano in campagna e fanno una cosa. Si raccontano storie. Perché è vero, non è raccontandoci storie che possiamo sconfiggere questa terribile situazione. Ma possiamo viverla in modo dignitoso. Possiamo volare con la nostra fantasia in terre lontane, possiamo creare col nostro cervello mondi diversi e protetti dal dolore, da questo dolore”. 

“Sì!”, urla qualcuno. “Ci racconteremo storie, una a testa, seguendo la nostra passione e le nostre inclinazioni. Assumerò il nome di Panfilo, e anche voi sceglierete il vostro nome pescandolo dal Decameron”.  

Tutti ormai sono convinti, anzi si fanno più entusiasti di me, e ognuno inizia a pensare, a immaginare. A vagare con la mente e col pensiero. D’un tratto ci sentiamo più vivi. 

Ebbene, diventammo Panfilo, Dioneo, Elissa, Emilia, Fiammetta, Filomena, Filostrato, Lauretta, Neifile e Pampinea. 

E fu così che iniziammo a narrare e fantasticare, per dimenticare la morte e la follia che stava iniziando a seminare quella immane tragedia. 

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