3. ELISSA

Era andata così. I suoi amici si erano presi un po’ gioco di lei lasciandole inconsapevolmente in mano il testimone della narrazione. Elissa non poteva più restare in silenzio, ma avrebbe fatto del silenzio l’oggetto del suo racconto, avrebbe giocato con il coltello che le era stato piantato nel fianco. “Provi emozioni?” aveva osato prima chiederle Fiammetta con aria vendicativa solamente perché lei, Elissa, aveva reagito con poco entusiasmo alla proposta dell’amica di occuparsi di poesia. E quale scelta le aveva lasciato se non rispondere “sì”? “Perciò, non puoi dire di non capire la poesia”, l’aveva di conseguenza rimbeccata di gusto la ragazza, provocandole un certo desiderio di diventare un mare del Nord, di quelli gelidi con i pinguini e le foche dentro, solo per spegnere quell’insolenza. L’avevano forse tutti presa per un’arida bionda senza cervello? A cos’erano serviti tre lunghi anni di uscite al cinema insieme e pop-corn condivisi? Forse alcuni sentimenti si rivelano solo quando ci si inizia a raccontare a parole. Elissa in fondo, non amava mostrarsi detestabile, ma era arrivato il momento di cadere in questo vizio. “Sapete ragazzi, io la poesia la conosco bene, anche troppo. Poesia significa dare al silenzio lo stesso valore delle parole, ma non è l’unico modo per farlo. Ecco, volevo dire solo questo, la poesia non è l’unico modo per dare valore al silenzio. Non solo leggendo poesie sui post di Facebook si può scoprire lo spessore delle parole, ma anche viaggiando e vivendo. Per questo, se permettete, io parlerò di viaggi e di libertà, di come camminare a piedi su sentieri non ancora battuti possa farci vibrare il cuore”. Gli altri l’avevano guardata piuttosto divertiti. Lei, catturata l’attenzione, non aveva aspettato altro e aveva dato una vigorosa spinta a quelle parole che erano lì pronte e aspettavano di catapultarsi nel vuoto, dal precipizio della lingua.  

«Attraversare il ponte. Cosa significava passare sopra duecentocinquanta traverse di metallo legate una all’altra sospese sopra un canyon di sessanta metri nella valle di Namche Bazar in Nepal? Davanti a Sofia c’era il ponte, prima o dopo quello che lei era e quello che avrebbe potuto diventare. Prese fiato e si spostò per lasciare passare un ragazzo con un cavallo. Prendere fiato era sempre una buona scusa per prendere tempo. In più, le aveva permesso di notare che quel cavallo non voleva camminare e il ragazzo ancora meno. Cosa le stava succedendo? Aveva già conquistato cime inimmaginabili, vette che sfioravano i tremila metri con un’esposizione al vuoto sempre elevata. No, la sua non era pigrizia e nemmeno vertigine. Voleva attraversare quel ponte ma l’unico mezzo che le restava per farlo erano le suole dei piedi. Infatti, quando la mente solleticava le fibre muscolari per fare un passo avanti, ecco che gli scarponi irrimediabilmente amavano diventare invisibili, facendole percepire ogni aghetto di pino che le punzecchiava lo strato più sensibile della pelle nascosta tra il pollice e l’indice, ricordandole che se avesse osato proseguire si sarebbe ricoperta di milioni di terribili taglietti rossi. Non era il primo ponte tibetano che incontrava, non era la paura del nuovo ad arrestare l’impulso elettrico necessario a muoversi. Tutto in quel luogo suggeriva movimento. Portatori che attraversavano il ponte carichi di materiali pesanti, dai tubi idraulici alle casse di birra, non perdevano tempo ad alternarsi passando sul ponte. Intanto, le bandierine appese alle funi portanti si annodavano tra le percosse del vento e pregavano. Eppure erano stracci. Sofia, come al solito, era riuscita a ricondurle all’originaria identità grazie all’ostinazione moralistica che la costringeva a vedere le cose non per quello che erano ma per quello che erano state in passato secondo una manuale d’interpretazione della realtà sensibile. Quel manuale però, ora non le dava risposte. Cos’era la sua, se non paura, se non vertigine, se non strizza, se non nostalgia? Paralisi, silenzio, la sua mente non dava risposta, nessun segnale, assenza di campo. Attraversare il ponte. Il comando era semplice, non si prestava a molteplici interpretazioni. Nella sua vita, aveva imparato a conoscere più tipi di ponti, quello degli aerei che le passavano sopra la testa quando era nel suo appartamento a Milano, quello delle navi dei pirati dei libri che leggeva quando aveva la fissa per il romanzo “d’avventura e moritura”, come lo chiamava sua sorella, poi il ponte del primo maggio che le restituiva le ore di sonno mancato, il ponte tra i denti finti della nonna che le aveva fatto il dentista, il ponte della lezione di ginnastica della seconda superiore con la prof. Pazza. Sofia guardò di nuovo il ponte. Ora era chiaro di quale ponte di stesse parlando, non c’erano dubbi. “La vera pazzia è tornare a casa Sofi, non andarsene via. Torna, ti prego”, eccolo lì, il ponte, sul suo cellulare. Sicuro, affidabile, con delle grandi mani forti. E poi: “Scrivimi che ti vengo a prendere all’aeroporto anche dopodomani”. Sofi guardò di nuovo quel messaggio. Scrisse qualcosa, poi cancellò tutto, anche i messaggi di Jack. Non voleva più rileggerli nemmeno una volta. Tagliare i ponti col passato, a volte, significa restare fermi.» 

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